Estratto dell’intervista all’autrice Lucia Vastano, uscita sul numero di gennaio di Nuova Antologia.
Le sue storie scuotono la coscienza sopita dell’occidente come o peggio di un ice bucket nella piena calura di agosto. Bruciano sotto pelle come solo la verità sa fare. Una verità dura, a tratti violenta, più simile a un ceffone che a un ammonimento. Lucia Vastano, pluripremiata giornalista inviata in terre di conflitto, sceglie la realtà della strada per raccogliere i pezzi delle sue storie. Scava sotto le macerie, scansa i resti della devastazione alla ricerca dell’identità di un popolo che da qualche parte, lei ci crede davvero, deve essere ancora se stesso, nonostante la guerra. I volti dei suoi personaggi sono bambini che giocano alla normalità mentre intorno piovono le bombe. Sono i miserabili che popolano le piazze di Nuova Delhi, del Nepal, dell’Afghanistan. Sono tutte le donne e gli uomini che portano avanti ogni giorno una guerra senza fucili, per il diritto alla normalità, nonostante le macerie tutt’intorno e il futuro appeso a un filo. Vastano si definisce un’inviata di pace, piuttosto che di guerra, perché il focus dei suoi racconti mira all’essenza, della terra, della gente, delle città e dei quartieri. Non alle trasformazioni, non all’abbrutimento prodotti dalla condizione di conflitto. Agli incontri formali con i capi di stato predilige il faccia a faccia con le persone comuni; mangiarne il cibo, varcarne la soglia di casa, entrare nel vivo delle discussioni di ogni giorno. “Quando arrivo in una città nuova –dice-, la prima cosa che faccio è comprare una cartina, infilarmi un paio di scarpe comode e iniziare a camminare per le strade”. Lucia Vastano non si accontenta delle macerie, scava nelle tradizioni locali per superare l’apparenza delle cose, riscoprire che esiste ancora l’identità di un luogo, seppur afflitto e calpestato, ciò che ancora popola i sogni della gente e a cui quella stessa gente anela ogni giorno di tornare. Normalità, niente di più, niente di diverso. È solo compiendo un viaggio attraverso la dimensione quotidiana di un popolo che si può capire profondamente l’orrore della guerra, nella misura in cui impariamo a intenderla come uno stravolgimento, completo e devastante, di tutti i riti, le abitudini, le piccole cose che hanno sempre condotto la nostra esistenza di prima. Così si ottengono gli strumenti per poterlo raccontare. “Non mi piace arrivare in un teatro di guerra, chiudermi in un albergo lussuoso e aspettare che sia la stampa locale a mandarmi le notizie da girare al mio paese. Mi piace uscire in strada e mettermi a disposizione delle storie. Pian piano saranno loro a venirmi incontro, senza ch’io debba neanche cercarle”.