Il Morelli è un tipo bizzarro che mi tiene compagnia fin da quand’ero piccina. Me lo sono persino sognato, qualche volta: biondo e magro, l’ho incontrato che eravamo ancora due bambini.
Nicanore Morelli è stato il mio primo personaggio, quando ancora non sapevo avrei amato la scrittura. È irreale, se per reale s’intende qualcuno che ti accompagna al cinema o risponde alle tue telefonate. Però a me sembra più vero di tante persone che dividono con me spazio tempo e società.
Lo conobbi casualmente, una sera di dicembre in cui sognavo ad occhi aperti i regali di Natale, una sera di quelle in cui i bambini si divertono a bighellonare nel mondo surreale dell’inconscio, tra scenari fantastici, supereroi, desideri dell’infanzia, spettri delle cose che si amano e di quelle che mettono paura.
Poi, mille distrazioni, cento cose accadute e apprese, in un soffio gli anni d’oro di bambina son volati. E Morelli sempre appresso, crescendo insieme a me di pari passo.
Visitavo il mondo surreale del mio inconscio, ogni volta che dalla sua anima scintillante mi aspettavo di ricevere consiglio. L’invocavo come fosse stato un santo, aggrappandomici per un certo tempo. E lui lì, sempre pronto, con poteri che non son di questa terra, a consolarmi, incitarmi alla battaglia. Perché pure la vita di un bambino è una lotta senza tregua.
Morelli è il mio eroe.
Un eroe spettinato e dissociato, quasi quanto me.
Ancora oggi, è lui l’unica fiaba in cui io creda.
Recentemente però ho capito che il tempo di staccarci uno dall’altra era arrivato, non perché io non ne senta più il bisogno, ma per via di alcune circostanze curiose accadute nel corso dell’ultimo anno.
Dopo aver letto “La generatrice di miracoli”, un’amica cara piuttosto sfortunata mi confessa che sì, entrambi i miei libri le son piaciuti, certo l’hanno fatta riflettere, ma anche rattristare. E questo proprio non va bene, considerato che la quotidianità ha già tanti problemi di per sé…magari -così, si fa per dire- la prossima volta suggerirebbe di scrivere qualcosa di più allegro e perché no, qualcosa che la faccia sognare un po’.
Le prometto di pensarci su.
Passa qualche mese e mi succede un altro fatto. Durante uno dei voli pindarici che ancora, regolarmente eseguo nel mondo surreale del mio inconscio, m’imbatto nel Morelli dopo un certo tempo di distacco. Lo guardo in volto, l’osservo lungamente. Qualcosa è cambiato. Fin ora siamo stati coetanei sempre, ma adesso mi accorgo che io sola sto invecchiando.
Gli chiedo se si tratti di una mia impressione, o se davvero la conta dei miei anni sia scattata più in avanti della sua.
Mi risponde che da tempo sta aspettando un’opportunità tutta per sé.
Capisco allora che il mio buon amico ha bisogno di cambiare prospettiva. Forse il mondo surreale del mio inconscio gli va stretto.
Oppure ormai la realtà troppo adulta dei miei giorni lo deprime. Me ne rattristo.
Però in effetti, a guardarlo ha solo vent’anni o poco più, io ormai trentasette.
Per quanto doloroso, capisco che d’ora in poi una distanza destinata ad allungarsi ci separerà.
Morelli dunque se ne va, il tempo è arrivato. Magari al suo passaggio regalerà un sogno alla mia amica Luisa, che l’aspetta e ne ha bisogno.
Restava però ancora la questione di chi dovesse liberarlo. Qualcuno che potesse raccontare la sua vita guardando al personaggio senza affezione. Decido dunque di convocare ancora una volta il buon vecchio Sirigatti, giornalista d’altri tempi scettico per indole, cinico per natura.
A proposito di questo c’è ancora un’ultima confessione che è d’obbligo fare. La stesura di questo libro non è stata semplice come pensavo, né spontanea come invece è stata quella de “La generatrice di miracoli”. Sirigatti e Morelli sono antipodi di un mondo difficilmente conciliabili, il che mi ha fatto dubitare molte volte della bontà del progetto.
Però poi, quasi il Morelli mi leggesse nel pensiero e cercasse la via per tranquillizzarmi, m’imbatto per caso in una frase di Nicolás Gómez Dávila “Per cogliere nel segno è necessario contraddirsi. Perché l’universo è contraddittorio”.
E’ questa la conferma che aspettavo. Il miracolo della contraddizione come segno di speranza, anche dove a occhio nudo non esistono più possibilità, a parte l’ovvio, catastrofico e annunciato.